opuscolo


Il paese delle fiabe
All’interno della realtà raponese esistono racconti popolari che si avvicinano molto al mondo fiabesco: storie, leggende che si sono tramandate di generazione in generazione ma che col passare del tempo rischiano di scomparire definitivamente.
Sta accadendo che le nostre tradizioni popolari - le fiabe e l’intero immaginario
cedono il passo a quelle in lingua inglese (come la festa di Halloween).
È necessario conoscere la propria cultura per andare incontro alla cultura “altra”; non ha senso conoscere il mondo degli elfi senza saper nulla del mondo dei monacelli (Scazzamauriedd per i raponesi).
C’è da rimboccarsi le maniche e raccogliere le ultime testimonianze. Ultime perché, come visto, da tempo i genitori e i nonni non raccontano più storie a figli e nipoti, perché la televisione si è sostituita a chi racconta.
Rispolverare la memoria degli adulti e far conoscere ai bambini le fiabe popolari – nel nostro caso quelle raponesi - vuole dire trasmettere e ricordare una memoria storica, la storia della quotidianità (la vita che si conduceva, gli oggetti, le relazioni familiari, i meccanismi sociali, l’emotività).
I racconti raponesi hanno alcune caratteristiche del racconto orale:
“la semplicità linguistica, a prevalenza della narrazione dei fatti sulle descrizioni, il ritmo incalzante, i paesaggi trasfigurati dal magico […] Streghe, maghi, spiritelli, donne astute e coraggiose, animali parlanti, briganti, santi, sono i protagonisti di storie insolite e affascinanti che riflettono tutta la ricchezza di una tradizione orale millenaria, tenace e fedele alla propria eredità culturale. Un patrimonio della memoria”. (Francesca Amendola)
Qui si pone immediatamente il problema cardine di queste fiabe raccolte a Rapone: sono davvero raponesi e lucane, nel senso che sono nate in Basilicata, o si tratta di decadimenti e riporti da altre tradizioni? Ritroviamo qui l’ossimoro Universalismo vs Particolarismo che sempre ha contrassegnato gli studi culturali.
Nel mondo delle fiabe orali la soluzione sta nel non contrapporli ma nel farli coesistere. É impossibile sapere dove nasce una fiaba; ciò che possiamo appurare è dove una fiaba viene raccontata, dove è entrata a far parte dell’immaginario collettivo,
dove viene sentita come appartenente alla propria cultura. Le fiabe sono raponesi perché narrate da sempre a Rapone; perché contengono umori, usi, cibi, forme dialettali proprie di questo paese; perché sono sentite proprie dagli abitanti.
Spesso ci troviamo di fronte a delle fiabe, altre volte si tratta di racconti e altre ancora dinanzi a delle favole (narrazioni moralistiche di animali che rappresentano vizi e virtù umane). Quali sono i confini di ciascuna di essa ci importa fino ad un certo punto. Ciò che ci interessa, infatti, è rappresentare il mondo immaginario di Rapone, l’insieme
di narrazioni – le quali, come detto sopra, appartengono alla grande matrice madre della fiaba - che venivano trasmesse ai bambini, anche se nel mondo popolare la fiaba era per tutti. Naturalmente in ogni racconto emergono la vita quotidiana, le speranze e le sconfitte, il vissuto individuale e collettivo della gente di Rapone esaltato dalla fantasia e dall’elemento magico.
“I cunti erano la mia alfabetizzazione, la mia conoscenza del mondo, la mia lezione di vita” - racconta Francesca Amendola in ‘Fiabe lucane’ –“I miei vecchi non addolcivano nel raccontare le storie crudeli, ricche di allusioni, di simboli poiché, anche quelle,
dovevano trasmettere un insegnamento, un modo di comportarmi”.
Le fiabe avevano l’andamento delle stagioni e dei lavori; erano legate all’oralità e, quindi, destinate alla dimenticanza. Perciò è necessario trascriverle, per conservarle e farle conoscere ai nostri figli, alle nuove generazioni, poiché sono il patrimonio culturale, la memoria e l’appartenenza ad una regione.
“Una storia affascinante: la nostra storia, racchiusa in narrazioni che si sono trasformate su se stesse e continuano, ancora oggi, a rinnovarsi riproponendosi, nello stesso tempo, uguali e diverse”. Questa citazione di Gianna Marrone esemplifica in modo chiaro ciò che intendiamo con il progetto “Rapone paese delle fiabe”.

La fiaba non ha età
È impossibile dare una data d’origine alle fiabe. “Non sapremo mai quali storie si raccontassero attorno ai fuochi di bivacco gli assedianti di Troia o tra i marinai che portavano la regina di Saba alla corte di Salomone. Gli schiavi che costruirono le piramidi sottrassero certamente un po’ di tempo alla loro fatica per ascoltare racconti,
e non vi è dubbio che i preti e i sapienti dell’epoca intrattenessero i nobili e i re con la narrazione di avventure reali o immaginarie [...] Ma quasi tutta la testimonianza diretta di questa attività è svanita nel corso dei secoli”. (Stith Thompson)
Spesso si cade nell’errore di credere che la fiaba sia una cosa da bambini, qualcosa che non ha a che vedere col mondo adulto se non in funzione della nostra capacità
di raccontarla. Nonostante la sua funzione di intrattenimento, infatti, essa ha per secoli caratterizzato la cultura adulta, impregnandone il mondo, finché non si è attivato un processo di infantilizzazione che, come afferma Giuseppe Gatto, possiamo ricondurre all’attività dei fratelli Grimm, a partire dall’inizio del XIX secolo. L’intrattenimento, infatti, ne è solo la funzione più manifesta. Noi raccontiamo una fiaba a nostro figlio, spesso, col solo scopo di intrattenerlo, perdendo così quello che è il carattere fondante del raccontare, ovvero quello di trasmettere i valori e la storia di una data comunità da una generazione all’altra. Il “c’era una volta”, la struttura della fiaba ci appare oggi come “data”, come scontata, ma così non è e gli studi del linguista antropologo Propp, ad esempio, ce l’hanno spiegato, svelandone la profonda complessità, unita a un fattore di matrice psicanalitico che ci ha svelato la profondità dei contenuti emotivi che ne permeano, appunto, la struttura.
Studiosi come Propp, quindi, ci hanno svelato la struttura complessa e il processo d’identificazione che ogni popolo ha posto nelle fiabe. Si parla di processo perché la fiaba popolare, diremmo oggi, è un work in progress; ha una matrice di base con alcuni elementi costanti e diverse variabili, quali il luogo, il tempo storico, i valori - che cambiano in base ai contesti storico-culturali -, che servono proprio al processo d’identificazione. La fiaba è un racconto inter e intragenerazionale che assurge a diverse funzioni (di intrattenimento, culturale, sociale) e che nella sua modalità orale si sta oramai perdendo, o almeno, come visto, sembra se ne stiano perdendo pezzi per strada lasciandoci alla sola funzione di mero intrattenimento di cui parlavamo all’inizio. I cambiamenti dei media di questi secoli (e quelli repentini del precedente,
in particolar modo) ne hanno modificato anche la trasmissione.
Dalla centralità dell’oralità si è passati ad esempio a riscritture letterarie, musicali, piuttosto che cinematografiche di cui fruiscono anche gli adulti, e rimanendo, in particolare, al medium (che come ci ha insegnato McLuhan,oggi “è il messaggio”) esso si è spostato sui libri, ovviamente, ma anche sui cd rom, sulle memorie dei pc, piuttosto che nel mare magnum della rete con i quali sono fatti arrivare al mondo dell’infanzia. È importante anche studiare la fiaba secondo una prospettiva storica, sia intesa come storia integrale, cioè realizzata con tutte le altre espressioni della tradizione narrativa di una data società, in un dato luogo e un momento determinato, che come storia dinamica, “non mirata esclusivamente al tipo originario o archetipo, bensì volta a seguire il processo di formazione, diffusione, elaborazione e fruizione nel suo storico svolgimento”. (Giovanni Battista Bronzini)
Questi sono i motivi principali che hanno reso la fiaba il genere dominante all’interno del sistema letterario orale e popolare. Possiamo definirla come matrice madre all’interno della quale esistono altri generi come le storie di vita, gli aneddoti, o ancora elementi di altre fiabe, ma ciò che è interessante notare è la metamorfosi spontanea che può subire la fiaba, trasformandosi gradualmente, primo fra tutti, in leggenda. Anche in questo caso si parla di processo, questa volta di un processo interno all’organizzazione della struttura fiaba. Ciò che è importante e deve essere invariato per far sì che si possa parlare di “narrativa orale” sono questi tre momenti fondamentali: la circolazione, la trasmissione lungo l’asse diacronico e l’esecuzione.
Non cadiamo però nell’errore di considerare la narrativa orale necessariamente non scritta. Anche la fiaba scritta può subire una trasformazione e divenire orale: “testi sempre pronti a diventare racconti tradizionali nel momento in cui prendono a correre e circolare di bocca in bocca e di generazione in generazione” (Cristina Lavinio)

La fiaba nelle sue simbologie cattoliche
Scorciaman e/o Mana Longh sono a Rapone, i personaggi fiabeschi per antonomasia perché totalmente inventati: nessuno mi hai mai riferito che questi personaggi siano realmente esistenti come i tre qui sopra presentati.
“In realtà le ‘sopravvivenze’ magiche lucane o genericamente meridionali pur ‘vivono’ in qualche modo e assolvono, nella società data, a una loro propria funzione: e finché ‘vivono’ […] serbano una tal quale coordinazione con le forme egemoniche di vita culturale a cominciare da quella forma egemonica religiosa che è il cattolicesimo” (Ernesto De Martino).
Nella religione cattolica il rosso viene associato agli inferi e al diavolo. Scazzamauriedd ha una valenza di creatura degli inferi e in quanto tale viene rappresentato nell’immaginario popolare con un cappello di colore rosso. Il colore, come il simbolo, è spesso ambivalente. Ogni colore può sempre essere inteso nel suo duplice significato; positivo e negativo, divino o infernale.
Nel nostro caso assume la valenza di “infernale”. Ma esso rimanda ad un chiaro emisfero magico perché legato anche all’alchimia, dove questo colore rappresenta lo zolfo, altro simbolo del diavolo. Presso gli egizi, ci racconta F. Portal “gli scribi intingono la loro penna nell’inchiostro rosso per annotare le parole di cattivo augurio, come il demone – serpente delle sciagure, o di Seth il dio del male, il Tifone del Nilo”. Questo colore, inoltre, per l’uomo primitivo rappresentava la conquista e il possesso. Bisogna conquistare e possedere il cappello rosso, infatti, per essere salvati e avere il tesoro dello Scazzamauriedd.
Anche la storia del lupo mannaro è pregna di simboli cristiani, a partire dalla sua nascita: chi nasce a cavallo tra il 24 e il 25 dicembre, come detto, subisce la maledizione del lupo mannaro. Nasce nel giorno di Cristo e ciò viene considerato blasfemo. Ma c’è la possibilità di salvarsi dalle sue grinfie: bisogna salire tre scalini oppure, se bussasse alla tua porta, devi rispondere solo alla terza bussata. Come ben sappiamo anche il numero tre ha una forte valenza religiosa, dato che rappresenta la Trinità: padre, figlio e spirito santo.
Il racconto delle streghe di Zia Lucia termina con la frase “Ti teniamo come compare San Giovanni fino alla settima generazione basta che ci fai uscire”. Cosa centra il Santo con le streghe? San Giovanni ha passato tutta la sua vita divulgando l’arrivo del nuovo messia, scagliandosi così contro i Farisei.
Erode Antipa lo fece arrestare per aver denunciato le nozze incestuose e adultere con Erodiade, moglie, in precedenza, di suo fratello Erode Filippo. Con Erode Antipa, Erodiade mise al mondo la figlia Salomè la quale dopo aver danzato per il padre fu indotta dalla madre a chiedere in compenso la testa di Giovanni, che le fu portata su un vassoio; era il 24 di giugno.
Tra le streghe, la leggenda vuole che ci siano anche Erodiade e sua figlia Salomè, condannate a essere streghe per aver fatto decapitare San Giovanni.
Come nella notte di Natale anche nella notte che precede il 24 giugno - che si passa vegliando - si crede che avvengano meraviglie e prodigi, tanto è vero che la notte che precede il giorno di San Giovanni è detta “la notte delle streghe”: il 23 giugno, periodo in cui la luna è in fase crescente, nell’antichità si credeva che le streghe, a cavallo delle loro scope, sorvolassero la Basilica di San Giovanni per radunarsi in un grande sabba annuale.
Una costante comune unisce tutte le fiabe di Rapone ed è la magia.
La condizione umana è disciplinata da leggi interpretate dalle Masciare, regolata dalle fatture e dagli incanti d’occhio o imbrigliata dai diavoli e liberata dai santi in una alternanza di vita e di morte, di amicizia e d’amore, di pozioni magiche e di Scazzamauriedd.
Ecco perché Rapone è il paese delle fiabe!

Testi a cura di Angela Verrastro – antropologa

E le storie continuano…
In questa ultima parte ci è sembrato opportuno ampliare i ricordi inerenti queste fiabe. Le storie che racconteremo sono memorie di due assessori, Donato Cappiello e Tommaso Corridore, i quali hanno deciso, in parte, di riportarle in prima persona così come le hanno ascoltate e, in parte, di raccontarcele essi stessi. L’atmosfera era quasi sempre di festa quando si ammazzavano i maiali e, nonostante la stanchezza dovuta al duro lavoro dei campi, si era soliti riunirsi a ballare e far festa nelle case più disparate del paese e al ritorno, forse a causa del riflesso della luna sugli arbusti lungo i sentieri percorsi a piedi e dei troppi bicchieri di vino bevuti, eccoti apparire ‘e Masciare, ‘u Lup Cumunal e ‘u Scazzamauriedd… .
Lup cumunal:
Tornavo a casa, mio padre aveva chiuso la porta perché era tardi e con quella scusa me le avrebbe suonate di santa ragione, decisi così di andare a dormire da mia zia
che mi ospitava sempre volentieri; in quel largo davanti la casa del dr. Patrissi c’era qualcosa per terra che sembrava un lenzuolo, forse caduto dalla corda dove era steso ad asciugare.
Girava stranamente su se stesso e girando si avvicinava verso di me (sotto il lenzuolo, si dice, che il lupo comunale nascondesse le proprie sembianze ndr). Ho avuto paura e ho preso a correre, sperando che la zia non avesse chiuso a chiave il portone. Bastò una spinta ed entrai, chiusi col varrone e la bestia, beffata, si accanì contro a porta, graffiandola.
Mi feci coraggio e presi il fucile, nel frattempo mia zia si era alzata e capito tutto mi intimò di fermarmi con queste parole: ”non figlij mij, doman s trov u mcirij. (no! figlio mio, domani troveremmo un omicidio).
Scazzamauriedd:
Ero sdraiato sulla branda, stavo fumando… è sicuro, non dormivo! La porta si spalancò, sull’uscio c’era un omino alto non più di un metro e venti, indossava una giacca doppiopetto marrone di velluto a coste larghe lunga fino alla coscia.
Cercò di saltarmi addosso, con una violenta reazione lo feci volare via e scomparve. Giuro non dormivo. Strano è anche il fatto che il cane accucciato vicino a me, sempre attento e vigile, non sia intervenuto.
Di Masciare a Rapone ce ne sono sette; donnine che nella vita di tutti i giorni sembrano persone normali, ma che nella notte tra sabato e domenica si spalmano con un particolare unguento che le permette di passare sotto le porte e di volare. Centinaia sono i racconti che si possono ascoltare su di esse:
dalla giumenta ritrovata la mattina con la criniera intrecciata in centinaia di treccioline perfette, al bimbo con la testa girata, a quella strega che non poteva morire se non passava le consegne (u pignatiedd) etc...
Dalle Masciare ci si poteva difendere in eterno con la cosiddetta ferratura. Quando il bimbo aveva pochi giorni di vita, si diceva che alla prima poppata bisognasse mettergli sotto la lingua poche briciole di limatura.
Vi erano, inoltre, diversi modi per scoprire chi fossero le Masciare del paese, uno di questi consisteva nel mettere sotto il cappotto a ruota che si usava una volta, tutto il materiale che occorreva alla mietitura: lo scaffudd, a vurredd, a vandier, la falce, r cannett, a vurredd. Ci si doveva, poi, fermare sull’uscio della chiesa e alla fine della messa della notte di Natale le Masciare sarebbero rimaste intrappolate.
Quando queste, prendendo per i capelli l’intrappolatore, gli avessero chiesto cosa avevano in mano, questi avrebbe dovuto rispondere “cor r cavadd” (coda di cavallo), altrimenti le Masciare sarebbero riuscite a liberarsi.
Per riuscire a scoprire, invece, quale Masciara avesse fatto la fattura al proprio caro, bisognava mettere a bollire gli indumenti intimi indossati dal malcapitato al momento della fattura. Si era soliti usare la “pignat” che veniva messa sul fuoco fino alla bollitura; con l’evaporare dell’acqua la Masciara avrebbe faticato sempre di più a respirare e dopo un po’ si sarebbe precipitata a casa della persona “guastata” (così veniva chiamata la persona oggetto della fattura) e avrebbe chiesto cosa si stesse cuocendo, a quel punto l’affatturato (o chi per lui) avrebbe allontanato la pignata dal fuoco per qualche istante e riavvicinandola al fuoco l’avrebbe obbligata a rimediare al danno fatto.

Testo a cura degli Assessori comunali Donato Cappiello e Tommaso Corridore